Messaggero dell’inferno. Dipinto su seta, fine Choson (Joseon) (1392-1910)

Sei davanti a un deviatoio. Sul primo binario si trovano, distese e legate, cinque persone. Sul secondo, una sola. Vicino a te c’è una leva: è la leva di scambio. Il treno sta arrivando ed è diretto verso il primo binario.

Stai forse aspettando che ti faccia una domanda? O hai già preso istintivamente una decisione mentre leggevi?

Formulato nel 1967 dalla filosofa inglese Philippa Ruth Foot, questo controverso dilemma fa discutere da anni filosofi morali e non, e sebbene possa sembrare sciocco, né la domanda né la risposta sono scontate. Non è tanto “cosa faresti?”, infatti, ma “cosa dice di te la tua scelta?” 

Ampiamente interpretata come denuncia al capitalismo e alle “sue” dinamiche (come se fossero proprie di un sistema e non degli individui che lo compongono), in particolare alla competizione spietata e alla disuguaglianza sociale che genera, la serie coreana Squid Game è stata salutata come moderna allegoria del capitalismo: perfetta istantanea della follia e della perversione dei ricchi e del sistema da loro controllato, colpevole ultimo di tutti gli squilibri e le ingiustizie del mondo.

Lo stesso creatore della serie ha dichiarato in un’intervista: “Il mio intento è mostrare come la società capitalistica di oggi promuova un sistema competitivo che produce un divario enorme di ricchezza e contribuisce a creare un nutrito gruppo di perdenti. Non ho risposte da dare, il mio è un modo per riflettere sulla nostra società: in che mondo stiamo vivendo?”

Eppure Dong-hyuk, oltre a strizzare l’occhio a Netflix, ha accettato senza esitazioni di curare una sfilata per Louis Vuitton a Seul, evento-vetrina del governo coreano. Modo singolare di denunciare l’Inferno Joseon (termine popolare utilizzato per criticare il sistema socio-economico coreano) e i suoi chaebol.

In che mondo stiamo vivendo, dunque? Forse in due. Da un lato chi si allinea al sistema e lo sostiene coerentemente; dall’altro chi si proclama contrario e dice di combatterlo ma, di fatto, lo rafforza.

La domanda è banale ma istintiva: può un prodotto con una tale portata mediatica, divenuto marchio globale tra moda e licensing, e distribuito da una piattaforma multinazionale, essere considerato anticapitalista nelle “intenzioni”? Pure l’epilogo della serie stride: l’ombra dell’inverosimile franchising – parola squisitamente capitalistica, preannuncia non un finale, ma l’inizio di un nuovo ciclo industriale.

In un articolo postato da JacobinMag, dall’emblematico titolo Squid Game è il capitalismo, Caitlyn Clark scrive che “ciò che distingue Squid Game da altri contenuti distopici come Battle Royale e The Hunger Games è l’esplicito focus della serie sulle disuguaglianze di classe nel contesto della moderna Corea del Sud.”

Ma forse la vera distinzione rispetto a opere come Battle Royale, feticcio di Tarantino, è un’altra: la scelta. Nucleo incandescente della serie – non è immediato, ma arriva. Ai giocatori di Dong-hyuk viene data più di una possibilità. Quelli di Fukusaku non ne avevano alcuna.

Quella del capitalismo è una lettura lineare che però si ferma al primo strato e si guarda bene dal considerare il concetto di “male”, anzi, lo confina nei piani alti del potere, come fosse “cosa da ricchi”. E invece la logica più sottile della serie – forse involontaria ma inevitabile perché vera – apre a un’idea diversa: che il male non sia esclusiva dei potenti, ma latenza costante della condizione umana tutta.

A pensarci bene, i fautori del gioco non fanno leva né sull’avidità dei concorrenti, né sulla loro disperazione, ma sulla loro crudeltà. La scelta diventa il vero espediente narrativo che permette di sondare gli abissi della malvagità umana. Questo è il nodo: il male non è solo una reazione alla disperazione, è una possibilità inscritta nella nostra stessa natura, che si manifesta proprio perché la scelta esiste sempre.

Nell’ultima stagione la possibilità di poter fermare i giochi è reale, eppure molti concorrenti non vogliono. Possiamo davvero concludere che il motivo sia solo la disperazione o l’avidità? Eppure tutti sono lì a causa dei debiti: è il motivo principale per cui partecipano al gioco. Ci sono addirittura momenti in cui, sebbene il gioco non lo imponga e la sopravvivenza non sia in pericolo, viene scelto di offendere o nuocere l’altro.

Per Kant il male non è un istinto, ma una scelta: piegare la legge morale al proprio interesse. Non toglie la libertà, anzi, la conferma. Ed è per questo che il male è responsabilità di chi lo compie, non il destino imposto da altri. Ma proprio perché la scelta esiste, diventa ancora più significativo e inquietante osservare quante volte l’uomo, posto di fronte a un bivio, opti per danneggiare il prossimo.

La logica più sotterranea di Squid Game ci ha disturbato perché ci ha obbligato a ragionare su una scelta. Su una situazione analoga in cui non ci sono scelte giuste o sbagliate ma soltanto scelte giuste o sbagliate per noi, e per la nostra morale. È una situazione paradossale e plausibile, follia e magia del libero arbitrio

Se quindi il primo piano di lettura porta all’assioma: ricchi cattivi contro poveri buoni (divenuti cattivi a causa dei ricchi) sarà facile empatizzare con i “prigionieri”, cavie da laboratorio, schiacciati dal sistema, soffocati dai debiti. E invece, davanti alla morale, uccidere per salvarsi resta una scelta. E il dito andrebbe puntato non solo contro i ricchi perversi che orchestrano il gioco, ma anche contro i concorrenti che, pur potendo agire diversamente, scelgono di perpetuare la violenza.

Il protagonista appare come unica salvezza della morale in un paesaggio crudele e di sopraffazione. Ma lo è davvero? Dopo essere sopravvissuto, sceglie di tornare nel gioco. Non per soldi, ma per sfidare colui che, in perfetto spirito hobbesiano (homo homini lupus), non ha alcuna fiducia negli individui e ne mette alla prova la natura nel modo più crudele possibile. Eppure il protagonista vuole dimostrare che esiste un’altra possibilità, che l’essere umano non è condannato al male. Ironia della sorte, nel farlo alla fine si ritrova solo e non può più tornare indietro: un Cristo senza discepoli che è costretto a sacrificare se stesso per insegnare il bene morale a chi non potrà mai interiorizzarlo.

Il dilemma della leva non è un esercizio teorico. Ci mostra il peso reale della nostra morale. La scelta non è mai neutra: rivelare il male o il bene significa rivelare sé stessi. Accettiamo facilmente l’idea di sacrificare una persona per salvarne cinque – l’utilitarismo nella sua forma più spiccia – ma fatichiamo a trasporre la stessa coerenza in altri contesti. Quando la posta in gioco è la nostra sopravvivenza, o il nostro tornaconto, siamo disposti a considerare “male minore” ciò che in altre situazioni giudicheremmo inaccettabile.

Alla fine, come qualcuno dirà anche nel gioco di Dong-hyuk, c’è sempre una scelta.

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