
Ne Il Mercante di Venezia è stato lungamente analizzato il tema dell’antisemitismo. Era presumibilmente tra il 1596 e il 1598 quando William Shakespeare compose il dramma: la comunità ebraica era stata espulsa dall’isola britannica da oltre tre secoli, eppure quell’assenza fisica si tradusse in presenza simbolica, fatta di stereotipi, folklore e inquietudini religiose. Shakespeare non ne fu di certo immune, ma sarebbe comunque ingiusto, come ha anche ritenuto molta della critica contemporanea, ridurre a una rappresentazione macchiettistica uno dei personaggi più controversi della commedia shakespeariana.
Nel rapporto emblematico tra Shylock, usuraio ebreo, e Antonio, giovane mercante, c’è l’humus di questa favola antica e contemporanea: capire le ragioni del loro odio reciproco è essenziale, e l’antisemitismo c’entra ben poco.
Shylock è un personaggio tragico, lucido, inquietante e scomodo. Scomodo perché ha il privilegio di mostrarsi per chi è veramente, in una società manieristica che si finge virtuosa e si indigna davanti al denaro solo quando la sua brama si mostra senza stile, quando forza la soglia del buon costume e diventa “privilegio”. Per Antonio e i suoi amici, volti “puliti” di una società imborghesita e annoiata, rappresenta un pericolo, non perché ebreo o avido (non lo è più degli altri Veneziani), ma perché è un outsider dominante. Non umile, non devoto, non servile: ha denaro, argomenti e, spesso, anche ragione.
Un mese fa, il matrimonio di uno degli uomini più ricchi del pianeta ha riacceso i riflettori su una Venezia orfana, figlia di tutti e di nessuno. Divisa tra l’overtourism e l’overpricing, la Serenissima si è ritrovata al centro di un dibattito che, a ben vedere, non la riguarda neanche.
Siamo passati senza mezze misure dal voyeurismo ossessivo, speculando su date, invitati, cambi d’abito e hotel di lusso, alla folle curva dell’indignazione: proteste, sit-in, striscioni ostili.
Perché? Cos’è che ci fa arrabbiare così tanto? È davvero il fatto che, come molti sostengono, Venezia sia stata “svenduta”, trattata come il “parco giochi dei miliardari”?
Per quanto ai media piacesse usare questo termine, la città non è stata “blindata” ma ci sono state restrizioni mirate e temporanee. L’Arsenale, ad esempio, è stato chiuso per 10 giorni, tra preparativi e cerimonie. Durante le Biennali, tutti gli anni da metà anno, l’Arsenale non è mai accessibile a meno che non si paghi il biglietto – Bezos ha pagato il suo e non poco, certamente non una libbra di carne come richiesto ad Antonio, ma pur sempre un contratto tra “gentiluomini”.
Ma se le proteste gridano “Fuori i miliardari da Venezia” o “Se puoi affittare Venezia per il tuo matrimonio puoi pagare più tasse”, stiamo davvero difendendo la città o siamo soltanto tremendamente infastiditi da un privilegio che pochi al mondo hanno e che ci viene sbattuto in faccia?
Parliamo di “privilegi”, invochiamo “più tasse”, ma in fondo il matrimonio di Bezos a Venezia non è così diverso da uno spritz a 25 euro al Caffè Florian: ci indigna e ci fa discutere. Ma si può davvero parlare di privilegi se un’alternativa esiste? Nei bacari, cuore pulsante della città, lo spritz costa ancora 2,50 euro. Con altri 2,50 ti porti via un cicchetto al baccalà.
Cosa penseremmo se a protestare per questo matrimonio ci fossero anche quelli che da anni godono di un vero privilegio su Venezia, quotidiano, strutturale?
Venezia è di tutti, ma lo è un po’ di più dei proprietari di immobili: la loro bibbia è Airbnb, rifiutano contratti a lungo termine, applicano tariffe altissime tutto l’anno (si arriva anche ai 1000 euro a settimana per un monolocale), non hanno particolari vincoli di locazione e, dettaglio tragicomico, spesso non vivono a Venezia. Bezos ha lasciato circa tre milioni di euro nelle casse del Doge (che ha ringraziato con tante promesse ma, ad oggi, non esiste ancora un piano concreto su come investirli). Cosa restituisce invece al tessuto economico e culturale della città chi sfrutta i suoi beni immobili? Venezia non è Disneyland, certo, ma non è neanche l’albergo galleggiante e decadente che hanno contribuito a far diventare, e il matrimonio di un miliardario c’entra ben poco con il suo sfruttamento sistematico.
E se è vero che Bezos può pagare più tasse perché può permettersi di “affittarla”, allora dovrebbe valere anche un altro principio: se affitti un monolocale a 1000 euro a settimana, puoi contribuire alla città. Puoi ristrutturare con criteri sostenibili, donare una parte degli introiti a fondi per il decoro urbano, accettare vincoli sull’uso degli immobili, dedicare alcuni anni agli affitti a lungo termine. Oppure, semplicemente, pagare più tasse anche tu. Perché la vera diseguaglianza non è solo tra chi può affittare Venezia e chi no, ma tra chi la sfrutta con sistematicità e chi la abita davvero.
Non staremo forse puntando l’attenzione sul “privilegio” sbagliato? O abbiamo semplicemente scelto di normalizzarne uno e far diventare capro espiatorio l’altro per calmare una folla che chiede giustizia?
Con quella leggerezza spietata, tipica della commedia, forse Shakespeare non stava ridicolizzando l’ebreo usuraio, ma piuttosto raccontando l’arroganza di chi si crede al sicuro dentro un ordine che si regge solo fintanto che nessuno lo prende sul serio. D’altronde è Antonio il vero mercante ed è lui che deride Shylock mentre firma contratti che non può rispettare e cerca compassione solo quando le cose si mettono male.
In questa faida insensata tra “gentiluomini” Veneziani e lo Shylock d’oltreoceano, l’unico vincitore, come sempre, è il denaro. Ed è questo che probabilmente ci da fastidio: non tanto il gesto in sé, quanto l’assenza totale di un codice implicito che chiede al privilegio di sembrare altro.
Therefore, Jew, though justice be thy plea,
consider this, that, in the course of justice,
none of us should see salvation.
(Portia, Atto IV, Scena I – la misericordia tra i cristiani)

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