Il suicidio dei samurai (2004) – Verdena. © Black Out / Universal Music.

Stando a un racconto di Erodoto, il faraone Psametek, nel disperato e poco ortodosso tentativo di scoprire le origini della lingua – uno dei tanti, tra realtà e leggende – fece crescere due bambini lontano dalla civiltà e accuditi da pastori sordomuti, volendo vedere quale lingua avrebbero parlato senza influenze. “Bakos” – è la parola che, secondo le testimonianze, uno di essi pronunciò. Si tratta della parola frigia (lingua indoeuropea estinta, dalla quale alcuni ipotizzano derivi il greco) per “pane”. 

Che si tratti di leggenda o di storia vera, ciò che resta è la domanda: esiste una lingua che nasce prima dell’indottrinamento? Una lingua innata, intrinseca, più antica delle sue stesse regole?

Biologicamente parlando, sembrerebbe di no. Ciò che però è osservabile, è il legame che c’è tra la parola (slegata dal sistema linguistico a cui appartiene), il suo segno e l’effetto innato che genera in noi.

Sappiamo che le metafore attivanti, ad esempio, svolgono un ruolo fondamentale nel linguaggio, nelle decisioni e nella costruzione della nostra Weltanschauung, evocando immagini vivide e provocando risposte emotive e cognitiva intense.

Ma possiamo spingerci oltre le metafore. Possiamo osservare un parlato che non è lingua nel senso sistemico, né discorso nel senso comunicativo. Un parlato che non chiede di essere interpretato perché si rivolge all’inconscio. 

È in questo spazio metalinguistico che si muove la lingua dei Verdena. Una lingua che non va letta, non va analizzata – va immaginata come si immagina un haiku, va contemplata, come si contempla un Pollock. 

Parole chiave gettate su una tela che, insieme alle note, attivano l’inconscio in un trionfo sinestetico. Non è nonsense, non è ermetismo. È una lingua zero che funziona per immagini e non per significati; frammenti retorici che si legano per risonanza, non per logica.

I testi dei Verdena non evocano passati o presenti familiari, eppure toccano corde conosciute. Ci è impossibile nominarle, ma le riconosciamo senza ridurle a esperienza.

E seguendo l’accorato appello dell’arte di smettere di voler dare un senso alle cose, nessuno chieda ai Verdena il significato dei loro testi, perché la risposta sarà tranchant – “non siamo bravi con le parole” – ma le loro non sono mai state soltanto parole. È inconscio che parla all’inconscio.

Questa lingua, i Verdena, l’hanno sempre parlata. E speriamo ci resti in eredità – insieme alla capacità di sentire, sentire e basta.

Lascia un commento