Edvard Munch, L’ansia (1894), Oslo, Museo Munch

L’American Heritage Dictionary riporta così l’etimologia e l’origine della parola placebo: [Dal latino placēbō, “piacerò”, prima persona singolare del futuro di placēre, “piacere”; (…) prima parola della prima antifona dei Vespri, tratta da un versetto del salmo: placēbō Dominō in regiōne vīvōrum, “piacerò al Signore nella terra dei viventi”.]

Il servizio dei Vespri dei defunti venne chiamato placebo nell’inglese medio e l’espressione to sing placebo assunse il significato di “adulare, mostrarsi servile”. Anche l’Oxford English Dictionary ne registra il significato storico di “flatterer / sycophant”.

È indicativo che in Merchant’s Tale (parte delle celeberrime Canterbury Tales), Geoffrey Chaucer assegni a un personaggio secondario il nome Placebo: egli adula il protagonista Januarie e, anziché suggerire prudenza, ne asseconda ogni desiderio.

Solo nel tardo Illuminismo il termine placebo entra stabilmente nel dizionario medico per indicare una prescrizione volta a compiacere il paziente, cioè per soddisfare semplicemente il suo desiderio di ricevere una medicina. Il fatto che, in molti casi, il paziente ne traesse un beneficio reale portò al “placebo effect”, divenuto celebre nel 1955 con The Powerful Placebo di Beecher, testo che istituzionalizza l’idea dell’aspettativa come principio attivo, oggi estesa a tutto ciò che riesce ad autosuggestionare la mente del nostro corpo.

Placebo significa letteralmente “io piacerò”. Una promessa più che un’azione. Ma verso chi? Il suo utilizzo storico ci racconta che è una promessa che facciamo più a noi stessi che agli altri e che, pur avendo effetti ascrivibili, raramente si traduce in azioni concrete.

Illusione e medicina o medicina dell’illusione: una non-azione che ci suggestiona talmente tanto da sostituire, in termini di benefici reali, l’azione stessa.

Il mito dell’occidentale etico nasce proprio da questa illusione. Ci promettiamo empatia, indignazione, cambiamento. Lo facciamo con gesti tiepidi, segni non di reale partecipazione ma di digitale condivisione. E per quanto i profili Instagram raccontino un’altra storia di morale, i nostri stili di vita tradiscono l’inconsistenza e la gerarchia delle nostre promesse etiche. 

Gerarchicamente condividiamo una notizia piuttosto che un’altra, gerarchicamente seguiamo un trend piuttosto che un altro. Siamo in parte già direzionati sulla scelta “etica” da seguire e anche una non-azione ci fa sentire “dalla parte giusta”. Ma è davvero così? Possiamo davvero ridurre l’etica della nostra vita al committment per una sola causa, per quanto grande, se ne ignoriamo altre che invece, in scala, contribuiscono in maniera più strutturale e ideologica all’architettura della nostra morale? 

È davvero difficile, oggi, fingere di non sapere quali atrocità si nascondono, e neanche troppo velatamente, dietro il nostro modo, tutto occidentale, di abitare il mondo e la storia: le più grandi industrie – insanguinate filiere tessili, alimentari e tecnologiche – ce lo ricordano quotidianamente perché quelle atrocità noi le indossiamo, le mangiamo, le teniamo in tasca.

Ed è proprio perché sono strutturali, perché ci attraversano e ci definiscono, che non possono diventare una battaglia da combattere: decostruirle implicherebbe decostruire noi stessi, e non siamo assolutamente disposti a quel tipo di rinuncia.

Ci limitiamo a sostituire anziché sottrarre: scegliamo alternative che ci vengono vendute come eticamente accettabili. Siamo così sicuri che la nostra scelta sia etica se, davanti a un banco frigo, scegliamo un hamburger di soia o di quinoa o se da uno scaffale prendiamo un tonno a marchio Safe Dolphin. Eppure Seaspiracy, oltre ad averci inorridito e insegnato una preziosissima lezione – ovvero che non esiste la pesca etica – dovrebbe anche averci messo in guardia da quei sigilli. 

Nonostante sappiamo sempre di più sulle pratiche intensive e disumane di coltivazione, allevamento e cattura, il consumo di pesce non è calato, come non è calato quello di carne. Ad essere aumentato però, e a dismisura, è il consumo di prodotti vegetali alternativi come quinoa, soia e avocado. 

«La quinoa viene coltivata nei due paesi più poveri del Sud America – Perù e Bolivia – e da quando è stata scoperta nelle “diete etiche” ha completamente stravolto l’esistenza degli abitanti di entrambi i Paesi. Il paradosso è evidente: mentre nei Paesi d’origine è diventato più conveniente mangiare l’hamburger di una multinazionale, i ricchi europei e americani possono consumare l’etico, salutista e sostenibile burger vegano di quinoa.» (Matteo Lenardon, Perché non c’è nulla di etico nella vita di un vegano, The Vision, 2017)

Il Fatto Alimentare segnala che nel 2021 si è arrivati a fruttificare a livello globale 8,8 milioni di tonnellate di avocado e si stima che entro il 2030 si raggiungeranno i 12 milioni di tonnellate. Un solo avocado, per crescere, ha bisogno di circa 70 litri di acqua fresca. In Messico, circa 20.000 ettari di foresta vengono convertiti annualmente per coltivare piantagioni di avocado. You do the math.

E se non vogliamo parlare di alimenti, possiamo guardare all’industria tessile, al tabacco o alla filiera sanguinaria della cocaina, a cui l’occidentale etico sembra incapace di rinunciare.

Una recentissima inchiesta sulle miniere di cobalto pubblicata due settimane fa da L’Espresso, ha rivelato che “In Congo, da trent’anni, si parla di “Genocost” ovvero di un “genocidio in corso per motivi economici”. Si stima infatti che l’economia del tech nel Paese abbia causato la morte di oltre 15 milioni di persone. Secondo Amnesty International, 40mila bambini, alcuni dei quali di appena 6 anni, sono stati coinvolti nell’estrazione di minerali, lavorando in condizioni difficili, pericolose e mortali. Nel 2024 l’organizzazione non profit “Raid” ha pubblicato un rapporto sull’impatto devastante dell’inquinamento tossico causato dall’estrazione del cobalto sulle comunità e sul clima del Congo.” (Diletta Bellotti, “Lo sfruttamento sta suonando nella tua tasca”, L’Espresso, 2025)

Il cobalto è fondamentale perché l’occidentale possa dimostrare la propria etica condividendo reel a sostegno di cause che, al contrario del cobalto, non richiederebbero sottrazione o sacrifici reali ma soltanto partecipativi.

Non è strano pensare a quanti pochi reel, bandiere e proteste sul Congo e sulle sue miniere abbiamo visto negli ultimi anni? Eppure – stando alle ultime inchieste – si tratta di un vero e proprio massacro di civili che va avanti da decenni e si è andato intensificando nell’ultimo periodo con l’aumento della domanda di tecnologie elettriche e digitali (batterie, auto elettriche).

In effetti, sarebbe ancora più strano condividere un reel in segno di protesta contro il cobalto proprio dallo strumento che rende le sue miniere della morte così indispensabili. 

Verosimilmente, le “cause” etiche che attraggono tanto gli occidentali sono accuratamente selezionate. Ma sulla base di cosa? Se l’algoritmo segue i trend, significa che ci sono cause più condivisibili di altre. Quelle più a portata di feed sono spesso pensate non per incrinare i nostri privilegi, ma per farci sentire parte di qualcosa, senza coinvolgerci davvero. È un attivismo che consola e non chiede rinunce. È la versione digitale del placebo effect. È lo slacktivism, una partecipazione che si limita a gesti simbolici (principalmente online), come like, condivisioni, hashtag, scioperi digitali… Scioperi digitali.

Nuovo linguaggio politico di una generazione che vive online: per sentirsi dalla parte giusta della storia bastano un paio di post: non costa nulla, non chiede rinunce e non cambia niente.

Venti anni fa, Susan Sontag parlava di consumo della sofferenza altrui attraverso le immagini, come un film: spettatori di guerre che non combattiamo, di dolori che non viviamo ma che consumiamo attraverso foto, telegiornali, social.

Questo scontro di prospettive, tra chi guarda e chi soffre, era, secondo Sontag, uno dei dilemmi irrisolvibili della testimonianza visiva. Non esiste un modo giusto di elaborare il dolore degli altri, ma c’è sicuramente quello sbagliato: pensare che ci riguardi solo quando ci commuove.

Qui invece il cortocircuito è ancora più ampio: il mito dell’occidentale etico si regge su un’empatia selettiva, che non è mai universale ma gerarchica. Empatizziamo di più con le vittime che confermano il nostro sistema di valori senza intaccare il nostro stile di vita, e ignoriamo quelle che lo metterebbero in discussione (i bambini delle miniere in Congo, ad esempio, ci costringerebbero a ripensare il nostro consumo tecnologico).

Forse è il caso di iniziare a renderci conto che la nostra intera esistenza, da occidentali, è tutto fuorché etica, e che la nostra capacità di sentire dolore per altri esseri umani è mediata da un racconto digitale che restituisce solo una minima parte della realtà.
Non siamo soltanto noi a non essere coerenti: non lo è neanche la nostra empatia. È intermittente, ordinata per prossimità culturale, per visibilità mediatica, per comodità narrativa, e in alcuni casi anche per il timore di essere esclusi da una certa classe di appartenenza. È irrimediabilmente condizionata dal nostro senso di superiorità morale e dal nostro stile di vita irrinunciabile.

Chiariamo: è giusto prendere parte, indossare gli abiti di cause che sentiamo più forti o più vicine, o semplicemente perché la narrazione lo impone. Saremmo considerati spietati a non farlo e ,del resto, sarebbe impossibile empatizzare con tutto.

Ma la domanda che dovremmo porci è un’altra: per tutte le scelte che continuiamo a fare e per tutte le rinunce che continuiamo a non fare, saremo davvero ricordati per essere dalla parte giusta della storia?

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