Dante Gabriel Rossetti – The Damsel of the Sanct Grael (1874)

Sembrerebbe che l’idea per il protagonista del cult movie The Fisher King sia venuta allo sceneggiatore Richard LaGravenese una mattina mentre faceva colazione e ascoltava la radio. Era la fine degli anni ’90 e in onda c’era il “King of All Media”, lo shock jock più famoso degli Stati Uniti d’America: Howard Stern. Cinico, politicamente scorretto, provocatorio, aizzatore; il carattere perfetto per la parabola discendente che avrebbe interpretato un magistrale Jeff Bridges.

La leggenda del re pescatore, questo il titolo tradotto in italiano, è uscito 34 anni fa e non ha sicuramente ricevuto l’attenzione che meritava. Il riferimento è quello a una storia del ciclo arturiano, forse più nota per aver servito come nucleo simbolico di The Waste Land di T. S. Eliot, specchio di un’umanità in crisi. L’ultimo discendente della stirpe dei custodi del Graal è un re ferito e incapace di governare, trascorre una vita infelice e solitaria in una terra desolata, che riflette la sua piaga, nell’attesa di un eroe che possa porre fine alle sue sofferenze. Alla fine, alcune versioni della storia vogliono che la salvezza non arrivi da un atto eroico, ma da una sola domanda, la parola di compassione e verità che nessuno osa pronunciare: “Che cosa ti affligge, sire?”. È solo a quel punto che il potere del Graal, già in possesso del re e che lo manteneva in vita, si attiva e lo guarisce.

È una lezione potente e non meraviglia che Eliot, dopo aver letto From Ritual to Romance di Weston, abbia deciso di utilizzarla nel suo incredibile mosaico di voci, lingue e citazioni per descrivere la condizione umana dopo la Grande Guerra.

Nel film avviene esattamente la stessa cosa: il regista Terry Gilliam riporta il mito medievale nella New York degli anni ’90, una città sdoppiata e lacerata tra la superficie patinata degli yuppie, capro espiatorio perfetto, e il sottosuolo di corpi esclusi, abbandonati, arrabbiati, marginalizzati; gli “scarti di fabbrica” di una civiltà che divora se stessa.

Oggi, purtroppo, continuiamo a sperimentare questa polarizzazione: una guerra a ribasso che troppo spesso sposta il focus su facili dicotomie, politiche o culturali. In Italia un microfono acceso ogni sera è diventato un vero e proprio punto di riferimento per quella società più o meno “marginalizzata” che spesso non trova spazio altrove. La rabbia diventa voce e spettacolo. Non è un luogo di guarigione, semmai di esposizione. Ed è proprio per questo che irrita, perché mostra ciò che preferiremmo non vedere.

Giuseppe Cruciani è lo shock jock numero uno d’Italia: crudele, satirico, provocatorio, polarizzante; “adulatori”, risponderebbe lui, citando La Russa. Mette Gesù e Barabba davanti alla folla inferocita e ci chiede di scegliere. A differenza di Ponzio Pilato, però, non se ne lava le mani e si schiera.

Appellandosi al “diritto di tribuna”, dà spazio a chiunque voglia intervenire, sfogarsi, lamentarsi. Chi lo segue sa che si alternano in egual misura entrambe le fazioni; il dibattito è la linfa vitale del programma. Unico requisito? La radicalizzazione delle idee. Nero o bianco.

Oggi riparte il suo programma di punta, La Zanzara, il podcast più ascoltato d’Italia – con uno share che ha fatto indignare più che mai l’opinione pubblica – o meglio, mediatica. Sentimento che nasce non tanto dall’atteggiamento dissacrante di Cruciani quanto dai suoi ospiti, dall’Italia che interviene e, di rimando, dal livello culturale della trasmissione.

Un’indignazione che non è stata riservata invece ad altri fenomeni culturalmente definiti “bassi” come Temptation Island, il cui indice di apprezzamento da record racconta di un’altra Italia ancora. Due pesi e due misure, che dicono molto più su di noi che sui programmi che seguiamo e ascoltiamo.

Indignandoci di fronte agli ospiti e agli ascoltatori di Cruciani, però, non stiamo solo commettendo un peccato di “superbia”, ma stiamo anche perdendo una preziosa occasione di riflessione. Superbia perché ci autoproclamiamo parte giusta, l’Italia “a posto”, chi sa che la terra è rotonda e che non esistono canepardi. Abbiamo la presunzione di credere e anche l’audacia di affermare che il diritto al voto non dovrebbe essere di tutti. Lo facciamo senza un briciolo di compassione, senza la minima curiosità antropologica o sociale che potrebbe condurci a domande più scomode. Che ruolo ha la società in questo circo? Perché ci irrita così tanto che certe persone esistano? Perché pretendiamo che tutto si allinei al nostro pensiero?

Sono domande che evitiamo, perché ci obbligano a riflettere anche sul nostro, di ruolo. A mettere in discussione i confini di una libertà che oggi viene invocata solo se resta entro i confini di ciò che la parte giusta della società considera accettabile: regole non più culturali, ma mediatiche, cucite sulle misure di una narrazione che non ammette storture né contraddizioni.

Sappiamo tutti che la terra è sferica e siamo ancora la maggioranza a crederlo, per fortuna. Detestiamo che qualcuno affermi il contrario e allo stesso tempo ne abbiamo un disperato bisogno per poter riaffermare continuamente che siamo noi quelli “normali”. La guerra polarizzante più emblematica resta quella tra una destra conservatrice e una sinistra progressista, entrambe figlie di una profonda ipocrisia che basa il proprio discorso politico su una guerra di categorie e sotto categorie. Ma è davvero Cruciani che sta dividendo il Paese? O siamo noi che scegliamo di non sbiadire alcuni confini tracciati col goniometro?

Se avessimo il coraggio di ammettere che non siamo l’Italia giusta, ma solo privilegiati abitanti di una porzione di società che ignora i propri sobborghi, ci renderemmo conto che non è più il tempo dell’indignazione, ma di capire dove stiamo sbagliando.

Forse il Mangiafuoco della Zanzara e le sue strambe creature non sono un freak show da deridere, piuttosto un importante termometro che ci sta indicando il livello di sopportazione di una società già schiacciata e marginalizzata dal sistema, nei confronti di costrizioni alle quali è impossibile non aderire, pena l’esclusione dalla parte “giusta” e la ridicolizzazione. Ci stiamo polarizzando da soli, Cruciani ce lo sta solo mostrando.

Il politically correct portato alla sua peggiore estremizzazione è ciò che più di tutto ci sta dividendo. Una guerra fredda che si muove sulla comunicazione, su segni verbali che diventano simbolo di sotto categorie che si autogenerano, alimentate dallo stesso sistema capitalistico che dicono di combattere e che invece le sfrutta, generando altra discriminazione (tra chi non vuole aderire a nuovi linguaggi e comportamenti e chi invece li impone) e altre sotto categorie.

È indubbio e sempre deve esserlo, il diritto di chiunque di credere e di dire ciò che vuole. Ma questo non può avvenire in un solo senso: devono essere previste due corsie, dove chi vuole andare nel verso contrario deve sentirsi libero di non aderire a una specifica sotto categoria o narrazione, con il rispetto che spesso manca a chi invece professa un unico credo totalizzante.

Non possiamo scrollarci di dosso responsabilità emotive ed educative creando vuoti simulacri di inclusività. Ottimi nelle intenzioni, ma che, loro malgrado, escludono altre sotto categorie. Guardando bene la realtà, ci sarà sempre qualcuno che resterà fuori da questo gioco “aggiusta tutto”. Se non prestiamo attenzione, rischiamo di commercializzare e banalizzare: rendere visibile non significa accettare.

La vera polarizzazione nasce dalla mancanza di compassione. La tolleranza, più che l’inclusività, è ciò che ci manca davvero. È vero che nominare categorie discriminate è stato necessario per colmare antiche ingiustizie, ma dovremmo farlo con la stessa compassione ed empatia che pretendiamo dagli altri, senza imposizioni, senza guerre a ribasso, tra poveri.

Ed ecco che torna la domanda che nessuno osa fare al Re Pescatore. La terra continuerà a essere tonda, ma desolata.

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