Francisco Goya, “Volo delle streghe” – Museo del Prado, Madrid

Centosettantacinque anni fa, un ex doganiere di Salem raccontava la storia (sedicente vera) di una donna costretta a cucirsi addosso l’iniziale della propria colpa: l’adulterio. Quella lettera scarlatta non era soltanto un marchio d’infamia, ma un dispositivo sociale che rendeva la vergogna visibile, uno “spettacolo” collettivo. La punizione pubblica, tipica di quella società puritana, si trasformava in un detestabile linguaggio non verbale, in cui l’individuo da punire era ridotto a monito e intrattenimento ambulante, deriso, isolato.

Livella universale di tutte le società, la vergogna affonda radici profonde, legate all’onore e al disonore. Declinata successivamente nella colpa verso Dio, è un sentimento che appartiene a tutti e non appartiene a nessuno. Si manifesta soltanto nel momento in cui, formando parte attiva di una specifica cultura o società, ne infrangiamo le norme, anche solo quelle morali.

Più forte di questo sentimento, c’è solo il piacere oscuro che si nutre delle disgrazie altrui: quello di chi osserva, commenta, schernisce, l’orrore di chi assiste divertito allo spettacolo della gogna pubblica, prendendone parte come a un freak show. Dai charivari nelle piazze medievali al circo mediatico di oggi, la vergogna e il piacere che ne deriva sembrano prodotti iscritti non solo nella cultura, ma nella natura della nostra specie.

I tedeschi, maestri delle crasi, hanno inventato, tra le altre, la magnifica Schadenfreude, una parola che in italiano può essere tradotta così: il godimento per le disgrazie altrui. Chi dice di non averlo mai provato, mente. È uno dei sentimenti più condivisibili, e forse il più umano, vago anticipatore della volontà di sopraffazione sul prossimo. Studi neuroscientifici ci dicono che osservare la caduta altrui attiva nel cervello i circuiti del piacere, gli stessi che rispondono al cibo o al sesso.

Complice anche un’esponenziale visibilità mediatica, oggi è impossibile sfuggire alla gogna. Che si tratti di un reato o di una caduta morale, siamo esposti e giudicati colpevoli nei tribunali social prima ancora che in quelli reali.

Purtroppo o per fortuna, questa stessa sovraesposizione di massa genera anche un veloce e inevitabile oblio. Le conseguenze ovviamente vivono. Non visibili, rimangono drammaticamente cucite addosso al “colpevole”.

Non capita spesso di assistere, dopo pubblica lapidazione, a un tale dietrofront morale e collettivo. C’è voluta una combinazione di fattori assai curiosa: una randomica kiss-cam al concerto dei Coldplay, un CEO milionario e un peccato assai comune, il tradimento (anche la stupidità, se per qualcuno è ascrivibile al libro dei peccati). Ancora più inusuale se si pensa al protagonista della vicenda, quello che alcuni chiamerebbero un bianco, privilegiato etero cis, milionario. È qui che la gogna mediatica diventa irresistibile: un uomo qualunque che tradisce resta invisibile, ci diverte che chi dispone di ricchezze e privilegi finisca imbrigliato in colpe anche minime, quotidiane.

Eppure si è verificato un vero e proprio cortocircuito: dopo il primo shit-storm fatto di accuse e di meme, sono apparse la compassione, la comprensione. Perché la gogna funziona bene quando colpisce un peccato che possiamo attribuire solo a qualcun altro, che non ci riguarda. Ma davanti a un gesto così comune, quello del tradimento, l’identificazione scatta. Punirlo troppo significherebbe condannarci insieme a lui.

Ed ecco post e storie che ci esortavano al “silenzio”. Alcuni “social-first” media, abituati a cavalcare meme e scandali, ammonivano i colleghi: “tra strategia e rispetto scegliamo il rispetto”. Comunicazioni che invitavano ad astenersi, a non utilizzare le disgrazie altrui per il proprio tornaconto. Magia del marketing: anche questo, alla fine, diventava contenuto strategico.

All’improvviso però tutto si rovescia: quello che sta accadendo oggi con i gruppi misogini di Facebook o, peggio, Telegram, ci ha messo di fronte a una realtà più grande e insostenibile. La gogna mediatica non è universale, non è democratica. Se davanti al peccato comune siamo i primi a condannare e a spettacolarizzare, altrove la condanna tarda ad arrivare. Qui la gogna non punisce: assolve. Gli uomini restano protetti dall’anonimato, le donne diventano marchio e spettacolo.

La gogna reverse: un teatro in cui il carnefice si salva e la vittima viene annientata.

Mentre facevamo meme sul Coldplay gate e ci domandavamo se fosse giusto o meno, mentre ci chiedevamo se a una donna avremmo riservato lo stesso trattamento, o se fosse giusto aver licenziato e umiliato una maestra perché iscritta a OnlyFans, uomini di tutte le età venivano continuavano ad alimentare i dogmi della manosfera, in gruppi dove si scambiano più di 30.000 messaggi sessisti e di odio al giorno, dove circolano foto e informazioni private di donne ignare.

Uomini che odiano ancora le donne, in gruppi talmente violenti che è difficile anche solo pensare che possano esistere e che non meritano neanche la più insulsa delle menzioni.

Una riflessione che fa male, perché i numeri parlano chiaro. Perché l’anonimato cibernetico protegge questi individui. Perché spesso sono gli stessi uomini che vietano alle proprie fidanzate o mogli di pubblicare foto nei social, per gelosia, per controllo. O perché conoscono il gioco, forse? D’altronde, lo hanno inventato loro.

Da donna, è una riflessione dolorosa. Disturba pensare che quelli coinvolti nello scandalo degli ultimi giorni siano solo due dei migliaia di gruppi che esistono, la maggior parte dei quali continua a operare indisturbata in quell’ecosistema omertoso chiamato Telegram, che continua a rifiutarsi sistematicamente di collaborare con governi e forze dell’ordine per rimuovere contenuti considerati dannosi, innalzando la bandiera della libertà d’espressione.

In Italia, una legge che punisca la diffusione non consensuale di immagini intime esiste solo dal 2019, e già dal 2018 si registravano le prime denunce e inchieste legate a Telegram. Eppure, nonostante indagini, petizioni e campagne, questi gruppi riemergono ciclicamente: segno che repressione e consapevolezza sociale non hanno ancora trovato un equilibrio.

Puniamo, ridicolizziamo, umiliamo per colpe minori: un tradimento, un messaggio vocale reso pubblico. Ma non siamo in grado di assumere una posizione netta contro un fenomeno di questa portata, contro le piattaforme che lo alimentano e lo proteggono.

La tolleranza che riserviamo a Telegram si spiega soltanto con l’uso che se ne fa. Telegram serve agli spacciatori. Serve a chi commercia armi, a chi traffica documenti falsi. Serve a chi semina odio, a chi orchestra truffe, a chi scambia materiale privato non consensuale. Serve a chi, celato dall’anonimato, trasforma l’intimità rubata in spettacolo pubblico.

E se ancora esiste, è perché queste persone non sono un’eccezione. Sono la maggioranza.

Una risposta

  1. Avatar Leonardo Azubel
    Leonardo Azubel

    Excelente.

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