Alla critica che lo accusava di aver dipinto un “paradosso” – riferendosi all’evidente disegno di una pipa e alla negazione della stessa – Magritte rispose divertito che non ne vedeva alcuno: “chi oserebbe pretendere che l’immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Donc, ceci n’est pas une pipe.”
Oltre a divertirmi nelle sale del Thyssen-Bornemisza di Madrid (La macchina Magritte, 2021), la spiegazione mi colpì particolarmente: quella del pittore belga non era affatto una burla paradossale, ma una provocazione visiva che interrogava l’incoerenza tra segno e referente. Il suo intento era quello di sottolinearne le differenze — e, con esse, la fallibilità del linguaggio umano nei suoi codici verbali e non verbali.

Oggi, davanti a pareti verdi ricoperte di piante e muschi stabilizzati 100% naturali, adorabili piantine giapponesi dalla forma sferica Instagram-ready e beginner-friendly, sedicenti terrari zen già meditati, shelfie e easy-to-care, ripenso a quelle parole: natura senza sbatti, social-friendly, che ha poco a che vedere con il green e tutto con l’estetica e la praticità.
Dal punto di vista del design, dell’interior décor e perfino dell’hobbistica, potremmo certamente considerarla una conquista, soprattutto se paragonati a prodotti meno eco-compatibili che acquistiamo quotidianamente e che non hanno una vera e propria utilità se non quella decorativa.
Ma il punto è un altro: a cosa corrispondono davvero questi segni? Stiamo davvero rispondendo all’esigenza (per quanto discutibile) di essere più green? Di “riconnetterci” con la natura e con i suoi benefici? O stiamo semplicemente adottando uno stile di vita che è green solo nella sua rappresentazione?
Proviamo utilizzando altri segni: carta da parati in 3D, oggetti verdi da interior design, bomboniere vegetali, creazioni facili da workshop di un’ora, piante vere plastificate (stabilizzate è quella parolina magica che fa scomparire l’odore di glicerina, coloranti e alcool, ottimo inganno linguistico-sinestetico): che cosa immaginate?
È proprio in questo slittamento che si annida l’equivoco: confondere la forma con il contenuto, la superficie con l’intenzione. Il segno con il referente, appunto. Perché se una parete vegetale stabilizzata non è tenuta ad essere ciò che rappresenta (ovvero una pianta che si nutre, cresce e, in alcuni casi, muore) – è altrettanto vero che può essere percepita e quindi venduta come tale. Un’idea di natura, non natura. Un simbolo di sostenibilità, non sostenibilità. Oggetti da contemplare, non da curare.
Una pianta finta in plastica è un oggetto che non pretende di essere naturale. Non lo è, né potrebbe esserlo. D’altra parte, leggere “no acqua, no luce, no manutenzione, 100% naturale” in riferimento a una pianta che è stata trattata chimicamente, genera un evidente cortocircuito linguistico e semantico. Quella pianta era naturale (oltre che viva), prima di essere sottoposta a un processo che ha interrotto il suo ciclo vitale e compromesso la biodegradabilità. Alcuni componenti possono essere di origine naturale, ma nel complesso il trattamento resta chimico e industriale.
Stesso segno, due referenti distinti. Eccolo qua il nostro paradosso!
In Italia, i bonus green e la retorica della sostenibilità indoor hanno indirettamente incentivato anche il mercato delle piante stabilizzate che, tuttavia, non offrono i benefici reali delle piante vive, né sul piano ecologico né su quello fisiologico. Il bonus verde riguardava anche l’acquisto e messa a dimora di piante e arbusti, ma non distingueva tra vegetazione viva e stabilizzata. Il protocollo WELL parla di “biophilic design” ma non specifica sempre la necessità di uso di vegetazione viva, lasciando spazio a comode interpretazioni.
Incentiviamo un’estetica verde, non una pratica. Premiamo “segni” di natura, non relazioni reali con essa. Perché?
Forse stiamo adattando la natura ai nostri spazi, al nostro tempo. Non c’è nulla di sbagliato in questo, ma non c’è neanche nulla di green. Diciamo di volerci riconnettere alla natura, ma in realtà la stiamo semplicemente modellando sul nostro stile di vita. Preferiamo kokedama self-made che non richiedono manutenzione, terrari “zen” che evocano un buddismo frainteso, composizioni di muschio che sopravvivono senza umidità.

Stiamo disinnescando la natura per renderla human-friendly, discreta, estetica, immobile: non richiede nulla, non sporca, non cresce, non muore.
È sicuramente anacronistico pensare che l’unica vera connessione con la natura possa essere quella degli antichi monaci Giapponesi dell’Edo, o quella di mio nonno, con il suo orto. Stiamo procedendo in una direzione a senso unico, è inevitabile. Ma una cosa resta ferma, proprio perché non è controllabile (sebbene abbiamo provato a cambiarne i codici): la natura ha il suo tempo, i suoi ritmi, le sue stagioni. E sono sempre più diversi dai nostri.
Esistono realtà che tracciano altri percorsi, non utopici ma fatti di connessioni reali, seppur “ottimizzate”, in cui al centro non ci sono semplici oggetti da decoro ma ecosistemi vivi che interagiscono con lo spazio urbano: macchine botaniche vive che purificano l’aria in scuole e uffici, nuovi approcci alla coltivazione indoor che riducono il consumo d’acqua e stimolano una cura domestica nuova, lenta e partecipata, spazi temporanei pensati per il co-planting. Qui il verde non è simulato né addomesticato: è un sistema vivo con cui entrare in relazione.
Stesso segno, nuovi referenti.
Il punto, come sempre, non è smascherare tutto. I riti servono. Anche se falsi, anche se importati. Ma la vera connessione con la natura è un’altra storia.
Tutto il resto è interior design.

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